Biblioteca didattica
L’agricoltura nell’Età del Rame
Nel Neolitico l'uomo traeva il maggior sostentamento dall'allevamento, ma nelle stagioni più propizie si dedicava alla caccia e a seconda delle dimensioni delle prede da catturare sapeva praticare con profitto battute di gruppo o la caccia individuale. Costruiva trappole per lepri, utilizzava reti per la pesca o l'uccellagione, lanciava corde con delle pietre appese all'estremità per bloccare la corsa di grosse prede. Ogni parte dell'animale veniva utilizzata. Oltre a soddisfare i suoi bisogni primari, l'uomo ricavava dall'animale pelli per confezionare abiti, ossa per fabbricare utensili o per preparare sostanze curative, tendini per cucire o per fabbricare corde, piume di uccelli per dare maggiore stabilità alle frecce.
Gli animali erbivori erano legati in maniera indissolubile al tipo di vegetazione che essi trovavano a quote diverse. Vi erano aree di fondovalle abitate da cinghiali. Altre aree erano popolate da roditori, mentre in alta montagna era facilissimo trovare animali di grossa stazza, come gli stambecchi, i camosci, i cervi, aquile e falchi, oppure animali più piccoli, come il gallo cedrone, le lepri, le marmotte. Per quanto concerne l'allevamento, nel villaggio venivano accuditi con molta maiali, pecore, capre, utili non solo quali scorte alimentari per le stagioni fredde, ma anche per la grande quantità di alimenti e di prodotti che da loro si potevano ricavare.
In alcune zone vi era è stata documentata la presenza di buoi, utilizzati per l'agricoltura. La pesca veniva praticata lungo i fiumi o nei piccoli laghi, formatisi dopo il ritiro dei ghiacciai. I pastori avevano da tempo imparato ad utilizzare il cane nella pastorizia.
Altri animali erano invece un pericolo costante per la vita del villaggio. Branchi di lupi si spostavano continuamente da una zona all'altra alla ricerca di cibo e non era raro il caso di attacchi ad interi villaggi.Tra i carnivori pericolosi vi erano anche l'orso e la lince. solo quali scorte alimentari per le stagioni fredde, ma anche per la grande quantità di alimenti e di prodotti che da loro si potevano ricavare.
In alcune zone vi era è stata documentata la presenza di buoi, utilizzati per l'agricoltura. La pesca veniva praticata lungo i fiumi o nei piccoli laghi, formatisi dopo il ritiro dei ghiacciai. I pastori avevano da tempo imparato ad utilizzare il cane nella pastorizia.
Altri animali erano invece un pericolo costante per la vita del villaggio. Branchi di lupi si spostavano continuamente da una zona all'altra alla ricerca di cibo e non era raro il caso di attacchi ad interi villaggi.Tra i carnivori pericolosi vi erano anche l'orso e la lince.
L'abbigliamento dell’Uomo venuto dal ghiaccio
Come fosse l’abbigliamento nel Neolitico, lo si evince dai reperti ritrovati accanto a insediamenti paludosi, dalle pitture rupestri o le rappresentazioni sui menhir (per esempio la statua stele femminile di Lagundo), da statuette di argilla e da elementi decorativi in osso e in metallo come nel caso del ritrovamento a Sungir (a circa 150 chilometri a est di Mosca) di una sepoltura completa di arredo. Questo ritrovamento, risalente ad un’età che varia tra i 23.000 e i 24.000 anni fa, ha permesso di individuare sullo scheletro dell’uomo circa 3000 perle e frammenti in avorio, che non costituivano un ornamento dell’abbigliamento ma bensì dei fermagli per unire fra loro i vari pezzi di pellame.
Sarà tuttavia la scoperta in perfetto stato di conservazione degli abiti dell’Uomo venuto dal ghiaccio a fornire risposta a numerosi quesiti. Per gli scienziati si è trattato di un’occasione straordinaria per chiarire alcuni aspetti della vita quotidiana di un uomo vissuto oltre 5.000 anni fa in un ambiente difficile e soggetto a basse temperature per diversi mesi all’anno. Un esempio delle straordinarie capacità artigianali e creative di quel periodo è dato dal rinvenimento di un taschino in cuoio di vitello, simile ad un moderno marsupio, che conteneva alcuni oggetti indispensabili per situazioni d’emergenza. Grazie ai due lacci di pelle attaccati ai bordi. esso veniva legato alla vita e poteva così mantenere il contenuto all’asciutto anche in caso di maltempo.
Anche un perizoma, confezionato con sottili strisce di pelle di capra unite fra loro da tendini di animali, veniva indossato passando attraverso una cintura.
Sopra al perizoma e al marsupio l’uomo infilava una sopravveste, fatta con la morbida pelle capra domestica. La ricostruzione della sopravveste ha evidenziato la mancanza delle maniche, il delicato intervento di cucitura dei vari pezzi che lo componevano e l’aspetto alquanto elegante dovuto all’alternanza di strisce di pelle chiara e strisce di pelle scura. L’abito risultato molto usurato perché molto probabilmente pezzo unico del vestiario.
Un’altra interessantissima scoperta fu la stuoia d'erba intrecciata che permetteva all’uomo di utilizzarla in diversi modi. La sua impermeabilità consentiva, infatti, di essere utilizzata quale tappeto su cui dormire oppure come mantellina in caso di pioggia, visto che un bordo risulta intrecciato con della rafia (vedi immagine a sinistra), oppure ancora come piccola tettoia per ripararsi dai caldi raggi solari durante l’estate.
In inverno il capo veniva protetto da un berretto di pelo, ritrovato solo nella seconda fase degli scavi e realizzato con una serie di strisce di pelliccia di orso bruno, aveva due striscioline di pelle al bordo che venivano legate fra loro sotto il mento, evitando così di perderlo durante il cammino.
L’Uomo venuto dal ghiaccio portava anche dei gambali, una sorta di pantaloni che venivano sostenuti probabilmente dalla stessa cintura che stringeva il perizoma. Anche in questo caso la pelle utilizzata proviene da un animale domestico: la capra. All’orlo inferiore è cucita una strisciolina di pelle utilizzata per tener unito il gambale alla scarpa durante gli spostamenti. Un aspetto assai curioso di questo ritrovamento deriva dal fatto che gambali del tutto simili sono usati ancor oggi dagli indiani d’America che li chiamano Jeggings e che li ricordano come indumento abituale dei loro antenati.
Al termine della vestizione si mettevano le scarpe. Queste antichissime calzature sono formate da una suola di cuoio ovale a cui era legata una rete intrecciata e una tomaia. Alla rete, grazie ad alcune funicelle vegetali, era tenuto ben saldo del fieno che costituiva una pratica e geniale difesa contro il freddo di montagna.
La caccia e l’allevamento nella preistoria
L'uomo del Neolitico traeva il maggior sostentamento dalla caccia. Furono proprio i primi cacciatori provenienti dalla pianura Padana, a esplorare la grande valle dell’Adige, seguendo il graduale ritiro dei ghiacciai e rimanendo ben distanti dal fondovalle, allora ancora in gran parte paludoso e malsano (10.000 a.C. circa). Solo con l’arrivo delle prime tribù stanziali e con l’introduzione dell’allevamento e della pastorizia, la caccia divenne un’attività organizzata all’interno del villaggio. Gruppi di uomini si muovevano lungo i sentieri di montagna alla ricerca di grosse prede, come il camoscio e il cervo, ma organizzavano anche battute di caccia all’orso, di gran lunga l’attività venatoria più pericolosa. Prede più piccole, come la lepre e la marmotta, non richiedevano lunghe assenze dal villaggio e potevano soddisfare il fabbisogno familiare anche con un solo cacciatore. Altrettanto valeva per la pesca e l’uccellagione.
Gli animali erbivori erano legati in maniera indissolubile al tipo di vegetazione che essi trovavano a quote diverse. In fondovalle vi era abbondanza di cinghiali, galli cedroni e fagiani, mentre in alta montagna era facilissimo trovare animali di grossa stazza, come stambecchi, camosci e cervi. Tutte le parti dell'animale venivano utilizzate. Si ricavavano pelli per confezionare abiti, ossa per fabbricare utensili o per preparare polveri curative, tendini per cucire o per fabbricare corde, piume di uccelli per dare maggiore stabilità alle frecce.
Gli erbivori non erano prede solo dei cacciatori, ma anche degli animali carnivori, in particolare dei lupi, che si spostavano in branchi da una zona all'altra e che non disdegnavano includere nella propria dieta alimentare anche l’uomo. Tra gli animali più pericolosi vi erano inoltre l'orso e la lince, ma anche l’aquila e la vipera erano costantemente in agguato.
Per quanto riguarda l'allevamento, nel villaggio venivano accuditi sia maiali, pecore, capre domestiche, sia bovini come l’uro, un antenato del bue, estintosi definitivamente nel XVII secolo. Questi ultimi erano utilizzati in agricoltura e per il traino di carri, il che fa supporre che almeno nelle zone collinari ci fosse un’intensa attività produttiva e di trasporto. Per quanto riguarda la pastorizia è accertata la pratica della transumanza, che richiedeva il trasferimento di greggi in zone di pascolo più elevate durante la stagione estiva e il loro rientro prima dell’arrivo dell’inverno. Si tratta di una pratica in uso ancora oggi quando migliaia di pecore condotte da esperti pastori risalgono la Val Senales sino a 3.000 metri per trasferirsi nella Ötztal, in Austria, seguendo lo stesso sentiero dell’Uomo venuto dal ghiaccio (da qui l’appellativo dato alla mummia di Ötzi). Grande compagno dei pastori e amico fedele nella vita quotidiana del villaggio era il cane, forse il primo animale addomesticato nella storia dell’uomo.
L'equipaggiamento dell’Uomo venuto dal ghiaccio
Numerosi sono gli oggetti ritrovati accanto alla mummia, molto spesso in ottimo stato di conservazione. In alcuni casi siamo di fronte a pezzi unici, come il ritoccatore o l’ascia di rame.
L’equipaggiamento è composto da numerosi attrezzi e diverse armi che nel loro insieme avrebbero permesso all’uomo di affrontare un lungo periodo di lontananza dal villaggio e di risolvere i problemi di sopravvivenza che un viaggio ad alta quota comportava. Va però precisato che dalle analisi condotte sulle tracce di sangue lasciate su alcuni oggetti, si è potuta dimostrare la loro appartenenza ad altri individui e che in certi casi, come nelle due frecce già pronte, mani diverse abbiano preparato lo stesso tipo di arma. Siamo molto probabilmente in presenza di un individuo che attraverso il baratto riusciva ad equipaggiarsi in forma straordinaria, come è possibile che alcuni oggetti siano stati ritrovati sul posto a seguito di tragico un evento o di un rito propiziatorio (offerte sepolcrali?) avvenuto 5.300 anni fa.
Gli oggetti ritrovati accanto alla mummia:
> un'ascia in legno di tasso. Il manico è lungo 60,8 cm. ed è stato ottenuto levigando un piccolo tronco da cui dipartiva un ramo quasi ad angolo retto. L'estremità è divisa a forcella per l'alloggiamento della lama, che è stata realizzata con una colata di rame quasi puro (98%), fissata alla forcella con pece di betulla e avvolta da sottili strisce di pelle. Non si tratta solo di uno strumento di lavoro o di un’arma, ma era anche un oggetto di rappresentanza, divenuto tale sia per la sua rarità e quindi per il suo valore commerciale, sia per il forte carattere simbolico rappresentato dall’oggetto stesso nella nuova struttura sociale che andava assumendo il Neolitico. Questo è l'unico esemplare di ascia preistorica giunto in perfetto stato di conservazione sino ai nostri giorni. Va inoltre sottolineato che su alcune statue stele rinvenute nella Lunigiana (Toscana), ad Arco (Trento) ed a Lagundo (Bolzano) sono state riprodotte delle asce molto simili e che il loro significato si può collegare all’importanza del ruolo religioso e sociale svolto dal personaggio per il quale l’opera era stata costruita.
> Uno degli strumenti più insoliti e l'unico esemplare completo ritrovato sino ad oggi è il ritoccatore. Costituito da un pezzo di ramo di tiglio levigato in cui è stata inserita una scheggia di corno di cervo, il piccolo attrezzo misura 11,9 centimetri. Esso era impiegato per affilare la selce che veniva appoggiata sul palmo della mano e quindi smussata lungo i bordi, evitando così i rischi di un’improvvisa rottura come avveniva con la tecnica a percussione, generalmente usata dai cacciatori dell’Età del Rame.
> I due recipienti in corteccia di betulla hanno forma cilindrica. Uno è alto 20 cm ed è composto da un unico pezzo di corteccia piegata e cucita lateralmente. All'interno vi erano foglie di acero, staccate quando ancora erano verdi, e particelle di carbone vegetale. Considerato il colore nerastro della parte interna della corteccia, si può ritenere che si trattasse di un recipiente per trasportare le braci. L'altro contenitore, di simile fattura, è stato rinvenuto più lontano dal corpo e in pessime condizioni.
> La faretra è costituita da una pelle di camoscio e da un’astina di nocciolo che la sostiene. Contiene 2 frecce pronte per l’uso e 12 frecce semilavorate, lunghe cm. 84-87. Tutte le astine sono ricavate dai rami del viburno, mentre per incollare le punte alle astine si è fatto uso di pece di betulla. Studi di Archeologia sperimentale hanno permesso di scoprire che una delle due frecce complete è stata rifinita da una persona mancina, avvolgendo il filo con la mano sinistra, mentre l’altra è stata rifinita con la mano destra. Nella faretra sono stati inoltre rinvenuti un cordino di rafia lungo 2 metri pronto per essere utilizzato per terminare l'arco, 4 punte di corno di cervo tenute assieme da fibre di rafia e una punta di corno ricurva alle estremità.
> Un arco incompiuto, lungo m. 1,82 e ricavato da un ramo di tasso.
> Un pugnale, lungo 13,2 cm, formato da una lama triangolare in selce fissata con una corda ad una impugnatura in legno di tasso. Un astuccio triangolare in rafia intrecciata serviva per portare l'arma.
> Una rete confezionata con fili d'erba intrecciata. Il suo impiego era molteplice, ma molto probabilmente veniva utilizzata per la caccia a roditori o uccelli.
> I resti di una gerla costituiti da quattro pezzi levigati di ramo ricurvo e da due tavolette. Probabilmente altre tavolette erano legate al supporto. Considerati i resti di ciuffi di peli, si può pensare che alla gerla fosse attaccato un contenitore di pelle.
> Un pendaglio con una perla di marmo bianco di forma circolare con un foro al centro, attraverso cui passa un laccio di pelle con alcune sottili striscioline di pelle attaccate, probabilmente utilizzate per le piccole riparazioni.
> Polpa di due polipori di betulla utilizzati molto probabilmente a scopi terapeutici, visto il loro potere battericida
Tra i residui alimentari si trovano una prugnola e due chicchi di grano interi tipo farro rimasti impigliati sulla veste. Il ritrovamento dei due frammenti di ossa di stambecco fa invece ipotizzare che l'uomo abbia avuto con sé una scorta alimentare a base di carne di stambecco essiccata e affumicata.
Le capanne nell’Età del Rame e il "Labyrinth" della Val Senales
Le capanne nell’Età del Rame e il "Labyrinth" della Val Senales
Una descrizione assai dettagliata delle case utilizzate nei primi insediamenti nelle Alpi si può ritrovare nelle incisioni rupestri della Valcamonica (BS). Le descrizioni eseguite sulla pietra dai nostri antenati risultano molto spesso così ricche di dettagli e di particolari da agevolare un’analisi storica non solo delle tecniche di costruzione ma anche dell’insieme abitativo, ossia la descrizione di un intero villeggio con sentieri e piccole proprietà agricole, come la famosa Mappa di Bedolina. Le figurazioni architettoniche incise sui sassi levigati dal passaggio dei ghiacciai ci raffigurano abitazioni di legno situate a metà costa lungo le pendici dei monti, sostenute da palafitte e quindi in grado di mantenere abbastanza asciutta l’unica stanza usata come abitazione. Sotto il piano di calpestio era possibile ricavare un riparo per la legna o per il raccolto, mentre i pochi animali domestici venivano ricoverati in recinti situati a poca distanza. Laddove il terreno pianeggiante lo permetteva le capanne venivano edificate senza palafitte, sempre in luoghi molto soleggiati e comunque distanti dal fondovalle che spesso risultava paludoso e inospitale.
Una fedele ricostruzione di un sito abitativo dell’Età del Rame è osservabile all’Archeoparc della Val Senales oppure presso l’Archeodromo a Capo di Ponte, in Valcamonica.
In Val Senales e nella valle opposta, l’Ötztal in territorio austriaco, si trovano alcune piccole costruzioni lungo il sentiero percorso dalle pecore per la transumanza e dagli alpinisti che vogliono raggiungere il rifugio Similaun. Si tratta in realtà dello stesso percorso già frequentato nell’Età del Rame dai cacciatori e dai pastori ed era una via obbligata per gli scambi commerciali tra nord e sud Europa. Di certo passò di qui anche l’Uomo venuto dal ghiaccio per raggiungere il valico. Al limite dei boschi e poco distante dal sentiero si trova una strana costruzione in pietra, di un diametro di 4 metri circa, meglio nota col nome tedesco di “Labyrinth” per la sua particolare struttura a chiocciola. Il periodo di costruzione è ancora materia di dibattito fra gli studiosi, in quanto potrebbe trattarsi di un recupero su un sito frequentato in precedenza. Il muro è costruito con la tecnica “a secco” e nelle fessure tra una pietra e l’altra veniva introdotta paglia mescolata a fango per evitare la dispersione del calore interno. Non vi sono finestre, né porte e l’altezza della parete non consente di rimanere in piedi.
Nella foto è riconoscibile la piccola abitazione denominata "Labyrinth" dalla sua particolare forma, che si trova ad una quota di 2.360 m.
Nelle immediate vicinanze del Labyrinth vi sono ancora dei resti di recinti in muratura che servivano molto probabilmente per rinchiudervi delle pecore. Proprio in quella zona è stata ritrovata una pietra piatta con un foro perfettamente circolare di 8 cm di diametro. Si tratta forse di una base di sostegno di un paletto verticale di un cancello.
Malattie e rimedi di 5.000 anni fa
Malattie e rimedi di 5.000 anni fa
Sul corpo della mummia sono state eseguite diverse analisi condotte con gli strumenti più moderni e dai risultati sono emersi alcuni elementi molto utili per capire la vita nell'Età del Rame.
Si è scoperto ad esempio che i suoi denti erano fortemente usurati, forse per la masticazione di farinacei misti a resti di sabbia ed erano assolutamente privi di carie. Le analisi sullo scheletro hanno inoltre evidenziato che l'uomo soffriva di artrosi e che aveva il colesterolo molto alto a causa dell'alimentazione basata essenzialmente su carni rosse. L’uomo doveva conoscere bene i rimedi per affrontare situazioni difficili o imprevisti perché accanto alla mummia sono stati rinvenuti due oggetti sferici, infilati in strisce di pelle, risultati essere dei polipori di betulla. Si tratta di un fungo che cresce spontaneo sui tronchi di betulla, la cui polpa, una volta essiccata ha effetto disinfettante e antibatterico. Gli archeologi hanno anche rinvenuto dei frammenti di osso di stambecco, che costituivano forse i resti dell'ultimo pasto dell'Uomo venuto dal ghiaccio. E' tuttavia opportuno ricordare che da tempi antichissimi, sino al tardo Medioevo, parti dello stambecco venivano utilizzate per cure mediche, mentre alle corna, alle pupille, al cuore e ad alcune parti dello stomaco del cervo erano attribuiti poteri afrodisiaci.
I tatuaggi
Quattordici zone diverse dei corpo dell'Uomo venuto dal ghiaccio sono caratterizzate da tatuaggi di colore grigio e si trovano concentrati in alcune zone del corpo, dove molto probabilmente erano maggiori i fenomeni degenerativi dovuti all'età dell'uomo e al logoramento. La funzione dei tatuaggi era quindi prevalentemente di carattere terapeutico nel tentativo di lenire il dolore provocato dall'artrosi. Non si può scartare, tuttavia, anche l'ipotesi di una funzione sociale e religiosa, in particolare di un loro significato simbolico per marcare il ruolo sociale svolto dall'individuo all'interno del clan o per rappresentare un collegamento col mondo spirituale, come nel caso delle due croci quadrate. La più piccola delle due si trova accanto al tendine di Achille della gamba sinistra, mentre la più grande è stata incisa sulla parte interna del ginocchio destro.
A tal proposito è straordinaria la correlazione con le croci quadrate che si ritrovano incise sulla superficie di numerose pietre a coppella e in alcuni menhir, contemporanei al periodo dell'Uomo venuto dal ghiaccio. Tali simboli sono direttamente collegati al culto solare ed hanno assunto aspetti leggermente diversi a seconda delle epoche in cui vennero incisi o a seconda del significato simbolico che si voleva attribuire ad essi come è ben visibile nello schema a lato.
Sul polso sinistro si possono osservare due linee parallele.
A causa del colore scuro della pelle è difficile affermare con certezza che si tratti di un tatuaggio. Esse potrebbero essere più verosimilmente tracce di una corda avvolta attorno al polso. Forse l'uomo vi aveva legato uno dei due cestelli di betulla ritrovati dagli archeologi.
Menhir e le statue-stele
Menhir e le statue-stele
Quando le prime tribù di uomini si insediarono nella soleggiata conca di Merano, non solo crearono un incredibile quanto efficiente sistema di collegamento tra i vari villaggi, creando di fatto un’asse commerciale tra il nord e il sud dello spartiacque alpino, ma pensarono anche di erigere in una zona soleggiata, oggi chiamata Lagundo nei pressi di Merano, un’importante zona sacrale con quattro menhir (o statue stele).
Le statue-stele sono in stretta correlazione con la diffusione dei metalli nel terzo millennio a.C. (inizio dell’Età del Rame) e con l’insediamento delle prime tribù stanziali nei territori alpini. Fortemente caratterizzate da figure umane, esse erano probabilmente dedicate agli antenati mitici e agli eroi ancestrali, portatori della conoscenza dei minerali e detentori del segreto della loro trasformazione. Il numero delle statue-stele ritrovate si concentra in alcune zone della regione come a Lagundo o ad Arco nel Trentino, ma vi sono altre scoperte di singoli monumenti a Tötschling, Velturno, St. Verena, Termeno, Brentonico, Revò, Laces, Fié e a Corces in Alto Adige.
I menhir di Lagundo e di Laces
Nel febbraio del 1932 vennero rinvenute le prime due pietre antropomorfe: una figura femminile, più piccola e una figura maschile più grande. Dieci anni dopo, nel 1942, nella stessa zona vennero trovati anche gli altri due menhir.
Queste le loro caratteristiche principali:
> Menhir A
Si tratta di una statua-stele femminile, senza parte superiore e decorata su tutti quattro i lati. Il busto è fasciato da un "diadema" a cui sono appesi dei pendenti a cerchi concentrici ed è decorato da un sottile indumento ad ampio panneggio. Un mantello con frange laterali, decorato con un motivo a scacchiera, ne ricopre la schiena. Misura 54 cm di altezza.
> Menhir B
Misura 267 cm. di altezza ed è la più grande delle quattro statue stele. Sul lato anteriore porta incisi 12 pugnali, di cui uno appeso ad un collare, un cinturone a festoni e 14 asce. I fianchi e la schiena sono ricoperti da un ampio mantello frangiato a bande verticali. Sotto il cinturone è raffigurato di un carro a quattro ruote trainato da due buoi. Elemento questo di estremo interesse perché presuppone l’esistenza di un collegamento viario di fondovalle.
> Menhir C
Dedicata a una divinità maschile e alta 94 cm, la statua è decorata su tutti i quattro lati. Un cinturone le corre tutto attorno e sulla facciata anteriore mostra un pugnale triangolare con pomo semilunato decorato da borchiette.
> Menhir D
La statua-stele, alta 123 cm, appare decorata con un cinturone a festoni che la cinge completamente, mentre un mantello frangiato ricopre i fianchi e la schiena. Sul davanti una bella raffigurazione di pugnale con pomo semilunato ci porta a supporre che esso sia dedicato ad una divinità maschile.
Il Menhir di Laces
La statua-stele venne rinvenuta nel 1992 nella mensa dell’altare della chiesa di Nostra Signora del Colle a Laces in Val Venosta. Per adattarla come punto d’appoggio venne ridotta su due o più lati, per cui solo una parte delle incisioni rimane ben visibile. In particolare sono riconoscibili i pugnali, alcuni manici di asce, il carro, due uomini, alcuni animali e un cinturone che probabilmente la adornava sui quattro lati. Ma ciò che sembra particolarmente interessante e per certi aspetti inquietante, è l’immagine riprodotta al centro, dove si vede uno dei due personaggi impugnare un arco e puntare l’arma verso la persona che gli sta di fronte. Alcuni mettono in relazione l’immagine con l’omicidio dell’Uomo del Similaun, assassinato da una freccia scagliata alle spalle. Molto più verosimilmente si tratta di una scena con personaggi rappresentati su due piani diversi o di statura diversa (vedasi riquadro a destra).
Gli “Omini di pietra”
Le piccole solitarie piramidi di pietra, conosciute col termine di “Omini di pietra” in italiano o di “Stoarnene Mandin” in tedesco, stanno ad indicare agli escursionisti un sentiero di montagna o un passaggio in quota e sono una caratteristica diffusa in zone di montagna in tutto il mondo. Essi possono costituire un importante punto di orientamento nel periodo invernale, quando la neve ricopre i pendii montuosi e impedisce allo sguardo di trovare il giusto percorso.
Sull’altopiano del Renon, a 2000 metri, non lontano da Bolzano, vi è però una concentrazione tale di queste costruzioni da sollevare qualche dubbio sulla loro primaria funzione. Erette sin dall’antichità con la tecnica del muro a secco, ossia con l’accatastare cumuli di pietre piatte una sopra l’altra, queste solitarie costruzioni assumono talvolta delle figure talmente bizzarre da stupire l’osservatore per l’originale disposizione di questi cumuli di pietra. Diventa difficile credere che riescano a resistere alle intemperie in una località molto esposta a venti e bufere di neve.
È certo che molti degli “Omini di pietra” del Renon si possono considerare di recente costruzione, ma è anche certo che l’origine di molti altri si perde nella notte dei tempi e che gli scavi archeologici hanno dimostrato la presenza dell’uomo sin dall’Età del Rame.
Molto probabilmente si trattava di un luogo di culto, rimasto tale per secoli, tanto che divenne anche “luogo di ritrovo delle streghe”, come citato nel 1540 in alcuni atti processuali.
Personalmente ritengo che il luogo sia stato un punto di raccolta molto importante per i clan stanziali dove svolgere riti propiziatori in onore delle divinità solari, viste la totale assenza di vegetazione e l’ottima visuale sulle principali valli della regione. Dall’altopiano, infatti, è possibile accendere un fuoco per segnalare la propria posizione a 360 gradi fino a distanze considerevoli.
Non è un caso se la Provincia Autonoma di Bolzano hanno eretto un monumento simile per indicare il luogo di ritrovamento dell’Uomo venuto dal ghiaccio.
La grande caccia questa volta si preannuncia come un evento molto importante perché il raccolto è stato magro e i cesti di frutta sono semivuoti. Con le riserve di cibo così ridotte, il villaggio non è pronto ad affrontare la stagione fredda ed è quindi indispensabile accumulare sufficienti riserve di carne prima dell’arrivo delle piogge.
Quando nel villaggio cala il silenzio e sul viso delle donne appare un velo di tristezza vuol dire che la partenza degli uomini per la grande caccia è imminente. Sanno, infatti, che qualcuno starà lontano tutta la stagione fredda e che qualcuno addirittura potrebbe non rientrare più. Sei il cacciatore più anziano e quindi tocca a te chiamare a raccolta gli uomini e organizzare i gruppi di spedizione; li informi che lo stregone ha previsto prede abbondanti e di grossa taglia per tutti, ma che non sarà una spedizione facile. Ricordi ai compagni di portare con sé tutte le armi perché bisognerà difendersi dagli attacchi dei lupi e forse anche dagli Uomini di cenere, i temuti abitanti delle Terre secche. Si dice che raggiungano i monti per cacciare orsi e uomini: i primi per mangiarli, i secondi per portarli via come schiavi nei loro villaggi. Si tingono il volto di bianca cenere e di rosso ocra per spaventare i nemici, usano armi più resistenti delle vostre e parlano un linguaggio sconosciuto. P
Come preferisci proseguire?
Decidi di aggregarti al gruppo più numeroso, quello che si occuperà della caccia dell’orso, perché c’è il capo clan Haran, di cui ammiri l’esperienza e il grande altruismo. Più volte controlli che tutte le armi siano pronte, soprattutto l’arco. L’ultima volta il cordino si è spezzato proprio nel momento decisivo e non vorresti che la cosa si ripeta. E' arrivato il momento di partire.
Rimani al villaggio in attesa del rientro dei gruppi. Ti senti troppo vecchio per reggere il passo veloce dei giovani cacciatori. E poi le tue scarpe sono rotte; è ora di cambiare la suola.
Preferisci la caccia al cervo, perché tutti e tre gli uomini che fanno parte del tuo gruppo sono amici di lunga data e perché è la meno rischiosa. Sei sicuro di esaudire così anche il desiderio di Arkei, la tua compagna, che nel frattempo si dedicherà alla preparazione di una giacca in pelle e ad accudire le capre.
Dedicate i primi tre giorni alla marcia di avvicinamento verso i monti più alti. Ogni sera il gruppo si ritrova attorno al fuoco per riposare e nello stesso tempo per scambiarsi confidenze ed esperienze personali. Talvolta i racconti sono così spassosi che le risate si disperdono nel buio della vallata; altre volte sono così terribili che la paura traspare dagli sguardi di chi ascolta. Anche in queste occasioni però non manca il riferimento alla leggenda del Cervo Bianco o ai racconti sugli Uomini di cenere. Ed è con questi pensieri che ti addormenti stretto vicino ai tuoi sette compagni. Un grande cielo stellato fa da tetto al piccolo riparo ricavato sotto l’enorme masso ai margini di un bosco.
All'improvviso un alito di vento freddo ti sfiora il viso ed hai la netta sensazione di un imminente pericolo. Ti accorgi che gli altri compagni sono già svegli e che nel massimo silenzio stanno cercando di individuare la minaccia.
Featured
Un sibilo taglia l'aria. L'urlo di dolore di Haran, che per primo aveva capito cosa stava accadendo, rompe il silenzio. Una freccia l'ha colpito al petto. Grida di battaglia si diffondono nel buio e quando ti accorgi degli Uomini di cenere, capisci che la vita di tutti voi è in pericolo. Lo scontro si fa corpo a corpo e cerchi di reagire con tutte le forze all’attacco di un guerriero che sta per scoccare una freccia.
Featured
Continui la lotta, ma ti accorgi che l’avversario non si muove più. E’ morto. Quando ti alzi, ti accorgi che il combattimento è terminato. Due corpi sono rimasti a terra. Lo sguardo cade sul gruppetto di compagni intenti a soccorrere Haran. Fai alcuni passi ma con un gesto istintivo porti la mano al fianco e quando vedi le dita insanguinate, capisci di essere stato colpito. Le forze ti vengono meno e le gambe si piegano. Ora gli amici ti sono attorno. Qualcuno ti sostiene e cerca di portarti sotto la roccia, ma non ce la fai più. Uno strano tepore ti coglie. La Signora della Vita ti accoglie con un sorriso.
In alto sui monti le ultime nuvole del temporale notturno si fanno cogliere dall’arrivo dei primi raggi solari. Più in basso, sul fondo delle valli, il buio sta lentamente abbandonando i prati e i boschi ora coperti di brina bianca. Sei in attesa accanto ad Haran del passaggio degli uomini per porgere loro un saluto di buona caccia prima che lascino il villaggio. Tra bimbi che piangono e grida di saluto, i gruppi si allontanano accompagnati dal tuo sguardo malinconico. E’ la prima volta che non vai con loro e siccome li conosci uno per uno sin da quando erano dei ragazzi, ti sembra di allontanarti dai figli più che dagli amici. Torni alla capanna e prendi in mano le vecchie scarpe, quando ti viene un’idea: perché non prendere la lancia e il retino da pesca e scendere al fiume a caccia di trote?
Castagni e betulle fanno da sfondo alla piccola insenatura dove il flusso dell’acqua si fa più dolce; è il posto ideale dove sistemare la rete e tentare di catturare qualche trota, usando la lancia per spingere i pesci nella direzione giusta. Nella parte più ombrosa, là dove la montagna scende più ripida, lamponi e more hanno trovato il luogo ideale per lasciarsi cullare dai leggeri colpi di vento. Forse alla fine della giornata potrai raccogliere qualche frutto.
Stendi la retina legando le due estremità a due grossi ciottoli, e prepari una sorta di percorso obbligato con altre pietre; poi basterà entrare in acqua e spingere i pesci in quella direzione. Nella speranza che l’attesa non sia troppo lunga, ti metti alla ricerca di una comoda pietra per sederti e attendere il momento più propizio, ma l’occhio viene attratto da un’orma fresca impressa nel fango, esattamente lì dove hai immerso il retino.
Ti avvicini per vedere se quel brutto sospetto che hai corrisponde a verità e nel girare il capo capisci che si tratta proprio di un orso. Il bestione mostra tutta la sua forza sollevandosi su due zampe e lanciando un forte ruggito che ti paralizza dalla paura.
Una prima violenta unghiata ti colpisce il braccio e quando stai per impugnare la lancia, un secondo colpo ti prende alla gamba. L’animale ti assale. Non c’è più speranza. La Signora della Vita ti accoglie fra le sue braccia.
La marcia di avvicinamento verso i prati di alta quota sembra un divertimento per il cane che sale e scende continuamente lungo il sentiero a controllare se i compagni ci sono tutti. Finalmente dopo due lune di marcia raggiungete il piccolo rifugio ricavato sotto una parete rocciosa. Accanto ad un magnifico rododendro in fiore alcuni compagni trovano un po’ di sterco di stambecco; ciò vuol dire che gli animali devono essere in zona. Ora, però, è il momento di mangiare un po’ di carne secca e di riposare; siete così stanchi che nessuno ha voglia di raccontare una storia o di scherzare. Il sonno vi prende in poco tempo.
Alle prime luci dell’alba un gelido vento proveniente dalle cime più alte passa sul vostro viso a portare la sveglia. Meglio riprendere subito il cammino così il corpo si scalda prima. Il sacro astro non è ancora giunto ad illuminare la zona che già avete individuato un gruppo di stambecchi. Vi muovete nel massimo silenzio e controvento. Di tanto in tanto fischi di marmotte sibilano lungo la valle, ma gli animali fino ad ora non hanno percepito la vostra presenza. Anche il cane se ne sta accovacciato in silenzio in attesa del segnale di attacco.
La caccia richiede sempre molta concentrazione perché la preda, se non viene colpita mortalmente al primo tiro di freccia, può sfuggire alla cattura e morire lentamente molto lontano dal luogo dell’agguato.
E’ una possibilità che tutti i cacciatori non vogliono prendere in considerazione, sia per non procurare inutili sofferenze all’animale, anch’esso figlio di Madre Natura, sia per evitare di doverlo seguire lungo ripidi pendii, costringendovi a rimanere ad alta quota oltre il periodo previsto. Questa volta la freccia ha colpito vicino al cuore e la preda cade quasi subito.
Prima di trasportarlo al bivacco scegliete una pietra dalla superficie piatta su cui scavare la coppella di ringraziamento alla divinità solare per l’aiuto prestato.
La via del ritorno si fa faticosa per via del peso dello stambecco, che in parte avete già sezionato. Quando arrivate al villaggio, Haran ti informa che Arkei, partita all’alba per la raccolta di frutta, non è ancora rientrata.
Il tempo sembra trascorrere lentissimo, per cui ad un certo punto decidi di andarle incontro. Forse si trova nella zona più ombreggiata del colle, dove tra rovi e piante di lamponi, crescono molti alberi di mele selvatiche. Una volta raggiunto il torrente che attraversa il prato sottostante, ti accorgi che i temporali dei giorni scorsi l’hanno ingrossato di parecchio; forse Arkei non è riuscita a rientrare per questo motivo. Sposti delle pietre nel punto più stretto del torrente per attraversarlo, ma il lavoro richiede molto tempo e ora sta sopraggiungendo l’imbrunire. All'improvviso ti sembra di intravedere sull’alto di una rupe una sagoma bianca. Per un attimo il pensiero va al Cervo Bianco, ma forse si trattava di un riflesso. Decidi di salire in quella direzione e proprio quando il fiato comincia a mancare, senti provenire un lamento da un canalone. È Arkei! In pochi passi la raggiungi e la rassicuri, stringendola forte a te. Tra le lacrime ti racconta di essersi spinta in alto perché voleva raccogliere anche delle pigne per ornare la capanna, ma poi non era più riuscita a trovare il sentiero del rientro. Ha pensato persino di morire, quando ha cominciato a sentire in lontananza gli ululati dei lupi. “Ora è tutto finito.”
Alle prime luci dell’alba prendete la via del ritorno. Quando arrivi al torrente sei molto stanco e devi concentrarti perché l’attraversamento con ARkei sulle spalle e con l’acqua alta non è per niente facile.
La corrente a metà guado si fa sempre più forte. Scivoli! L’acqua ti trascina verso valle! Arkei invece riesce ad aggrapparsi ad un ramo e a risalire sulla sponda opposta. Anche tu cerchi un appiglio, ma la corrente ti sommerge e ti trascina lontano. Non riesci ad aggrapparti e ti manca il respiro. La Signora della Vita ti accoglie con un sorriso. Una pace interiore assorbe l’ultimo pensiero.
L'allarme mobilita gli uomini rimasti al villaggio e in breve tempo con un gruppo di compagni ti metti alla ricerca di Arkei. Raggiungete i prati all’imbrunire, poi vi dividete in ordine sparso, mantenendo un contatto fra di voi con richiami ad alta voce. Le ricerche durano fino a quando è buio intenso. Poi il gruppo decide di fermarsi per accendere il bivacco per la notte nel punto più elevato, all’altezza del primo “Omino di pietra”.
All’improvviso il battito diventa irregolare, ti manca il respiro e sembra che la lama di un coltello sia penetrata nel petto. Le mani si stringono al petto, in un gesto spontaneo di dolore. L’aria ti manca, Il sonno arriva caldo come il calore della tua capanna. La Signora della Vita ti accoglie con un sorriso. Una pace interiore assorbe l’ultimo pensiero.